Non è raro che, a fronte della produzione in giudizio di un documento, ne venga contestata la sottoscrizione, dando così ingresso al procedimento di verificazione della scrittura privata. Più difficile è incorrere nella proposizione in via principale (vale a dire con un'azione a sé) dell'istanza di verificazione di scrittura privata.

Tale azione è prevista espressamente dal codice di rito (segnatamente, dal secondo comma dell'art. 216 c.p.c.), per la quale la norma prevede che l'attore dimostri “di averne interesse”. L'interesse al provvedimento giudiziale di verificazione costituisce pacificamente una condizione di ammissibilità dell'azione.

Da ciò deriva una prima conseguenza: l'interesse al provvedimento deve essere allegato, vale a dire dedotto in giudizio, e chiaramente esplicitato fin dall'atto introduttivo.

In difetto di tale allegazione – e cioè di domanda proposta con il generico scopo di ottenere la verificazione di scritture – l'azione sarebbe fine a se stessa e, quindi, l'istanza di verificazione proposta in via principale rischia di essere immediatamente cassata come inammissibile.

Occorrerà pertanto che l'attore qualifichi, e prima ancora affermi, quale sia la ragione della sua domanda di verificazione, il suo interesse al provvedimento giudiziale e, non ultimo, ne fornisca in giudizio dimostrazione.

E' necessario soffermarsi su che cosa intende per “interesse” il secondo comma dell'art. 216 c.p.c.. Due sono gli indirizzi giurisprudenziali sul punto.

Secondo il primo – forse più condivisibile – l'interesse cui si riferisce la norma in argomento non coinciderebbe con quello di cui all'art. 100 c.p.c., risultando altrimenti pleonastico il contenuto della disposizione in esame. L'art. 216 del codice di rito richiederebbe pertanto un quid pluris rispetto alla norma generale (l'art. 100 c.p.c., appunto).

Il secondo indirizzo ritiene invece che l'interesse di cui al secondo comma dell'art. 216 c.p.c. coinciderebbe con l'interesse ad agire, inteso come interesse al provvedimento giudiziale richiesto.

Peraltro, anche a voler seguire tale seconda tesi, non sarebbe comunque sufficiente l'enunciazione dell'interesse ad addivenire all'accertamento giudiziale della riconducibilità della sottoscrizione ad un determinato soggetto giacché, così facendo, non si andrebbe oltre all'affermazione della ratio dell'istituto.

Recentissima è sull'argomento la sentenza del Tribunale di Bergamo n. 1081/17, che ha dichiarato l'inammissibilità dell'azione di verificazione proposta in via principale, difettando l'interesse dell'attore ai sensi del secondo comma dell'art. 216 c.p.c.; parte attrice si limitava invero a dichiarare di voler conferire ai documenti oggetto di giudizio il “valore di prova legale” assumendo che, in forza di tale documentazione, avrebbe acquisito diritti (nel caso specifico, di passaggio).

Il Giudice ha precisato che la funzione dell'azione proposta ex art. 216, secondo comma, c.p.c. “non è quella di assicurare l'accertamento di situazioni giuridiche di cui si vanta la titolarità” e che l'attore “non esplicitando l'interesse ad agire in verificazione in via principale, non ha indicato il rapporto di utilità tra l'eventuale accertamento dell'autenticità delle sottoscrizioni e la lesione di un diritto a tutela del quale intraprendere un giudizio futuro, giudizio questo peraltro non menzionato e a cui la parte non si è comunque riferita nell'introdurre il presente processo”.

In definitiva, nel caso di istanza ex art. 216 c.p.c. proposta in via principale l'attore dovrà preoccuparsi di allegare fin da subito il proprio interesse alla verificazione della scrittura, vale a dire il rapporto di utilità tra il provvedimento giudiziale richiesto (verificazione della scrittura) e la situazione sostanziale. Pena l'inammissibilità della domanda.


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